Sotto l’azzurro fitto/del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: «più in là»”
Il più in là cantato da Eugenio Montale è un’attitudine al viaggio che si alimenta di esperienze, racconti, narrazioni. Anche se la nostra meta è il paesaggio che abbiamo tutti i giorni davanti agli occhi. Perché, come scriveva Italo Calvino, “Anche quando pare di poche spanne, un viaggio può restare senza ritorno.”
Perché il viaggio non è distanza, ma bellezza, comunità, sostenibilità, occhi per guardare, parole per raccontarlo.
Il viaggio è una storia che esiste solo se la sappiamo raccontare.
Per questo abbiamo chiesto agli studenti che seguono l’insegnamento “Itinerari turistici e paesaggio come patrimonio culturale” del corso di laurea triennale in Scienze del Turismo tenuto da Enrica Lemmi, Direttrice dell’Accademia del Turismo di Fondazione Campus e professoressa ordinaria presso l’Università di Pisa, di descrivere e raccontare un viaggio aprendo semplicemente una finestra della loro casa. E abbiamo chiesto loro di descrivere il paesaggio che si vede da quella finestra come se fosse una meta turistica usando il linguaggio dello storytelling. Perché quello che i nostri occhi vedono da una finestra descrive il senso del vero viaggiatore. E quando abbiamo occhi per vedere e parole per raccontare quel viaggio diventa un’esperienza che merita sempre di essere raccontata.
Oggi apriamo la finestra di Caterina Andreozzi…
Quando sono stanca mi siedo sul letto e, come incantata, guardo la finestra di camera mia, un quadro che cattura la mia parte di mondo. Presumo che il mondo sia più grande dello spazio delimitato dalle bianche ante della mia finestra, basta rivolgere lo sguardo verso l’immenso cielo blu che sempre ci circonda e ci ricorda della nostra sottile esistenza. Le soffici nuvole che continuano ad andare ed andare anche quando l’uomo rimane fermo, con quel senso di superiorità che ci lascia indietro.
C’è qualcosa di rasserenante nel guardar fuori alla propria finestra lo scorrere del tempo, così veloce che passa dai primaverili vasetti di gerani lilla e rossi al giallo polline che sporca le macchina in compagnia del rossa scia che lascia lo scirocco, fino alle labili foglie autunnali che si trasformano in men che non si dica in neve.
Tutto scorre, all’infuori di noi, ma ci sono delle cose che persisteranno nel tempo.
Nello sfondo della mia veduta ci saranno sempre le Alpi ad avvertirmi dell’arrivo della nuova neve, e gli alti cipressi che spesso sembrano consolarsi in gruppo. Le palazzine rosse in fondo alla strada sulla sinistra e le loro gemelle gialle di fronte a loro, sulla destra, dove una volta c’erano solo cumuli di terra e piantine selvatiche di profumata camomilla sui quali andavo a giocare con Zago, il cane del mio cuore. Il grigio asfalto dove da piccola ho imparato ad andare in bicicletta e i rossi mattoncini del marciapiede che circonda l’ampio parcheggio, ancora pieno di macchine.
Ci saranno sempre generazioni di bambini a giocare su quell’asfalto grigio e a sbucciarsi le ginocchia sui mattoncini rossi, anche quando ad affacciarsi dalla mia finestra non sarò più io.